Dato che credo nella cultura libera, ma soprattutto gratis, visito il Museo Diocesano di Ancona, nel weekend della cultura.
Il piazzale del duomo di S. Ciriaco è già gremito di anconitani, visitatori occasionali e un paio di pullman di turisti.
L’ingresso del museo alla sinistra del duomo, nonostante l’incipiente affollamento sul piazzale, è come avvolto dallo stato di reverenza ecclesiale. Entro e mi accolgono due simpatiche donne che si mostrano sorridenti e solerti a ribadire la gratuità della visita guidata, nonostante il classico obolo “spontaneo” da lasciare alla fine della visita.
Storco un po’ il naso, ma visto che è visita guidata, prendo tempo sui miei pensieri e seguo la guida, senza minimamente aspettarmi quello che sto per descrivervi.
L’itinerario si addentra in sale un po’ fresche, ma pulite, e sostanzialmente architettate per un percorso didattico logico, istruttivo e ben ponderato. Si parte da reperti architettonici attestanti il passato della città di Ancona (o Ankon come mi piace ricordarla sempre!): una parte del capitello corinzio del tempio di Afrodite su cui poi è sorto il duomo, mi stuzzica immediatamente l’immagine degli antichissimi Dori Siracusani approdati e stanziati in questo lembo di terra; che civiltà i greci!
Appena scesi due gradini, una delle prime meraviglie: il sarcofago di Flavio Gorgonio. L’opera in sé è di testimonianza notevole, ma è la preparazione della guida che inizia a interessarmi, vista la confidenza che inizia a prendere (siamo in quattro) e non è sempre facile relazionare con estrema dovizia di particolari tutto il mondo d’arte custodito in una sola opera; figurarsi poi in quello che mi aspettava.
Dal sacro al profano e viceversa: le sale a seguire sono un tutt’uno di frammistarsi di reliquie – quella del protomartire stefano, il celebre sassolino – o di parti anatomiche – tralascio commenti su queste usanze. Ricchi sudari, mitre e piviali. Uno di questi è gigantesco e immagino le dimensioni pachidermiche di chi ha potuto indossare quel capo di vestiario religioso: mi avrebbe comodamente coperto tre o quattro volte, eh sì che non son proprio piccolo!
Poi, per rimanere in tema religioso, fiat lux: nel corridoio che attraversa il museo da un’ala dell’edificio all’altra entra luce naturale; scorgo dietro i pannelli che ospitano i super interessanti reperti, ed ecco la spenta luce di questo pomeriggio entrare da finestroni arcuati, che affacciano su un giardino privato e dietro, beh, dietro c’è l’Adriatico, dietro c’è il porto di Ankon, dietro c’è l’incommensurabile visione di quello che è il segreto tattico-logistico che ha spinto i Dori ad accasarsi in questa terra: rocca di quello che diventerà Colle Guasco a strapiombo sul mare, e a sinistra il “gomito” della città! Impareggiabile!
Proseguendo la visita, e interessati dalla moltitudine di evidenze storiche, reperti, vengo attratto dal reperto del portale di una chiesa (S. Anna dei Greci) ormai scomparsa a causa di terremoti e bombardamenti che Ankon ha subito: ciò che mi incuriosisce e che poi viene brillantemente spiegato dalla nostra guida, sono i numerosi buchi di varia grandezza che costellano le figure religiose del reperto del frontone della chiesa: altro non sono che le rimanenze di una tecnica di ornamento e colorazione della pietra in bassorilievo, praticati con trapani – a mano, ovviamente – e che venivano riempiti di paste calcaree colorate e vetrificate; non solo, anche le figure riportano buchi più piccoli lungo tutto il corpo: queste venivano riempite di piombo – e qualche piccolo frammento è rimasto – per creare il contrasto tra il colore naturale della pietra, le parti colorate e le figure, in maniera da donare dinamismo e plasticità: geniale, quanto concreto e semplice da eseguire!
Nelle teche scorgo pure una bolla papale con tanto di sigillo; non fa il pari con l’iscrizione all’ingresso in ben tre lingue (latino, greco ed ebraico), ma mi rimanda lo stesso il senso di calma mista ad eccitazione che i documenti storici mi fanno: quando c’è carta, specie se ingiallita e muffosa con evidenti rimandi a immagini storiche testimoni di avvenimenti del passato, beh, credo che sia ineguagliabile la sensazione di surrealismo che si può ricavarne.
Addentrandoci nel molteplice range di opere custodite, la pinacoteca è tra i perfetti testimoni del passato della città, oltre che arricchire il museo e il comune stesso di capolavori senza tempo e dal valore artistico inestimabile. Tra tutti – oltre all’ovvio rimando ai notabili Ferretti -, e mentre la guida continua a profondere dati e descrizioni con grazia quanto con precisione, la mia attenzione è catturata dal quadro di Pier Leone Ghezzi “San Tommaso da Villanova” che elargisce ai bisognosi; la situazione è ben strana, perché mi pare proprio di trovarmi davanti a un Caravaggio, e pure molto bello; Paola, la guida, lo nota e conferma quanto sostenevo, spiegandoci che l’autore è stato allievo del Caravaggio: luce, soggetti e fisionomie, particolari, drammaticità tra volti sereni e altri sofferenti…insomma, Caravaggio nell’opera di un suo allievo per un quadro di rimarcabile pregio artistico, ancorché inserito in un contesto marcatamente ecclesiastico. Direi per gli amanti del genere: non perdetevelo!
Ultima annotazione – tra le decine che avrei potuto fare, ma che evito per rispetto della sintesi blogghesca – l’ultima sala: gli arazzi; enormi, imponenti e affascinanti; la luce particolare dei dipinti viene subito notata: e ti pareva, i grandi si riconoscono da lontano e sono così dentro la nostra testa che appena ne vedi uno, o traccia di uno di loro, non puoi accostarlo al suo nome: Rubens; sì, gli arazzi – restaurati, a causa di danni subiti da incendi – sono eseguiti su cartoni-bozze a firma del maestro fiammingo; ci soffermiamo su quello dell’Ultima Cena, dove, Paola ci fa notare che a differenza di tutte le altre innumerevoli rappresentazioni, questa è pensata e dipinta in un “set” diverso: in una chiesa! E anche il cane che morde l’osso sotto l’Iscariota – l’unico a non essere investito della luce immanente del Cristo – lascia a bocca aperta: simbolo di fedeltà certo, ma mi riporta tanto a quel cerbero di dantesca memoria…
L’Ultima Cena, l’ultima sala, l’ultima descrizione di Paola e un ultimo sguardo a riavvolgere il nastro della visita: la consiglio vivamente – nonostante il costo se lo fate a prezzo pieno – perché custodisce pezzi di rara bellezza e sicuro interesse, oltre al fatto che forse avrete la fortuna di essere accompagnati da Paola o da un’altra guida alla sua altezza, competente, preparata, ma sicuramente appassionata dal suo lavoro. Ed è per questo che lasciamo l’obolo “spontaneamente suggerito all’ingresso” e infiliamo l’uscita.
Consiglio questa visita a chi piace l’arte, a chi la vuole ammirare dal vero e a chi ha voglia di ripercorrere la storia della città attraverso la lente di stampo ecclesiastico, in una città dal passato legato a triplo filo con la marca pontificia, sebbene l’orma antico-pagana, e il fatto di essere stata e di continuare a essere un basilare crocevia di genti dall’oriente più o meno vicino, ne dipinge – è proprio il caso di dirlo – la complessità del tessuto architettonico, del patrimonio artistico, della multiformità sociale.
Come multiforme è il piazzale del duomo: oramai invaso anche dai riders della domenica, da turisti armati di macchina fotografica super-professionale, obiettivi sparati sul sagrato del duomo, persone ad armeggiare con treppiedi o al cannoncino panoramico in questa splendida e affascinante città.
…e una vela che naviga dalla marina dorica verso la baia incrocia un traghetto che porta gente, merci e cultura…la vita, lo scambio di idee e culture continua sempre, incessante, ma comunque sorprendente.
Francesco